FAQ Condominio
Spese ordinarie a carico del conduttore e oneri straordinari di competenza del proprietario, ma come si possono distinguere?
In tantissimi contratti di locazione c’è scritto che le spese di manutenzione ordinaria sono dovute dall’inquilino mentre i costi concernenti interventi straordinari sono a carico del proprietario.
Rientrano sicuramente tra gli oneri ordinari le spese indicate dall’art. 9 della legge n. 392 del 1978.
Ed il rifacimento della facciata?
Posto che è una questione fisiologica e non certo improvvisa dover intervenire, ad esempio, per ritinteggiare la facciata dell’edificio, questa spesa dev’essere considerata ordinaria o straordinaria?
La domanda è tutt’altro che banale s’è vero, com’è vero, che di recente la Corte di Cassazione è intervenuta sulla materia per ribadire una propria presa di posizione già espressa in altre circostanze (come dire: la questione della natura ordinaria o straordinaria delle spese non è nuova).
I principi espressi dalla Cassazione sono frutto di un articolato ragionamento giuridico che prende spunto dalle varie declinazioni di spese ed interventi straordinari presenti nella legislazione in differenti ambiti (edilizio, locatizio, diritti reali) e che finisce inquadrando anche alla luce delle varie definizioni quella che più si attaglia al caso in esame.
Gli ermellini, prima di ogni cosa, hanno ricordato che “la qualificazione delle opere di ordinaria manutenzione o di manutenzione straordinaria, e l'attribuzione dei lavori all'una o all'altra categoria, spettano al giudice di merito, involgendo indagini di fatto, e il relativo apprezzamento si sottrae a censura in sede di legittimità, se sia sorretto da esatti criteri nomativi e sia adeguatamente motivato (cfr. Cass. 20 marzo 2003, n. 4064; Cass. 4 gennaio 1969, n. 10)” (Cass. 10 dicembre 2013 n. 27540).
L’adeguatezza della motivazione riguarda anche i principi di riferimento Principi che nel caso, di specie, dicono da piazza Cavour, sono stati rispettati.
“Nella decisione impugnata – prosegue la Corte di Cassazione - la distinzione tra le spese di manutenzione ordinaria e di manutenzione straordinaria risulta correttamente affidata ai profili della normalità e/o prevedibilità dell'intervento e dell'entità materiale della spesa, con il necessario adeguamento della nozione civilistica di riparazioni straordinarie di cui all'art. 1005 cod. civ. allo statuto del rapporto di locazione, quale consacrato, nella specie, nell'accordo in deroga.
Invero per spese straordinarie, facenti carico al locatore, devono intendersi le opere che non si rendono prevedibilmente o normalmente necessarie in dipendenza del godimento normale della cosa nell'ambito dell'ordinaria durata del rapporto locatizio e che presentano un costo sproporzionato rispetto al corrispettivo della locazione; rientrando nella categoria anche le opere di manutenzione di notevole entità, finalizzate non già alla mera conservazione del bene, ma ad evitarne il degrado edilizio e caratterizzate dalla natura particolarmente onerosa dell1 intervento manutentivo (Cass. 10 dicembre 2013 n. 27540).
Insomma il rifacimento della facciata dev’essere considerato alla stregua di un’opera straordinaria, anche in relazione ai costi che sono sottesi, e come tale posto in capo al proprietario dell’unità immobiliare.
Articolo di Avv. Alessandro Gallucci
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Cosa può influire sull’aumento del valore immobiliare nella compravendita?
Nella compravendita di un immobile, il valore commerciale è legato a fattori diversi che ne regolano la consistenza. In generale, quando si parla di valore commerciale, ci si riferisce ad un appartamento in buono stato manutentivo, con impianti a norma e funzionanti, collocato in posizione mediana rispetto all’edificio e con almeno un posto auto. Quando una o più di queste caratteristiche viene a mancare, ovviamente la casa si svaluta. Ad esempio, se l'appartamento è occupato dall'inquilino si svaluta circa del 30%; analogamente si svaluta notevolmente se sono necessari numerosi interventi di restauro.
Diversamente, quando sono presenti alcune caratteristiche non comuni, come le finiture di lusso, un’ottima disposizione degli spazi, isolamenti termo-acustici, una buona copertura del servizio pubblico, la presenza di verde pubblico o condominiale, il valore della casa aumenta proporzionalmente. Gli stessi interventi di riqualificazione energetica, se certificati e in grado di garantire un effettivo risparmio sui costi in bolletta, come anche l’installazione di impianti tecnologici innovativi, influiscono non poco sull’innalzamento del valore commerciale dell’immobile.
Il caso del tetto fotovoltaico.
Anche l’installazione di un tetto fotovoltaico, oltre a garantire un risparmio effettivo sui costi energetici, contribuisce ad aumentare il valore commerciale dell’immobile in caso di vendita. È questo il risultato di una indagine svolta dal Lawrence Berkeley National Laboratory (LBNL) della California, condotta su una serie di dati riferiti al periodo 2000-2009.
Il Report ha analizzato la questione approfondendo l’analisi di tre fattori in particolare: l'andamento dei prezzi nel corso degli anni, il valore dei cosiddetti “premi solari” in base alle dimensioni e all'età dei sistemi installati e il confronto tra premi, costo del sistema e ritorni economici. Sulla base dei risultati ottenuti (per ogni kW prodotto dal sistema solare sul tetto, il valore di una casa in vendita aumenta di 5.911 dollari), è incontrovertibile affermare che i sistemi fotovoltaici costituiscono un fattore di incremento del valore immobiliare sul mercato della compravendita.
Un fattore da non sottovalutare, comunque, è quello riferito all’età del sistema fotovoltaico che comporta una diminuzione dei premi solari fino al 9% per ogni anno di esercizio, con una riduzione del ritorno economico (-0,5% all’anno) e un aumento dei costi di tenuta del sistema (+5% all’anno).
Il Bollino di qualità per le ristrutturazioni.
Anche gli interventi di ristrutturazione volti alla riqualificazione energetica di un immobile, con finalità di risparmio sui costi energetici e innalzamento dei livelli di confort abitativo, favoriscono un aumento del valore commerciale dell’immobile all’atto della compravendita.
Dall'inizio del 2013 è stato presentato il nuovo protocollo CasaClima R, una sorta di sigillo di qualità che viene assegnato agli immobili che si sottopongono a lavori di ristrutturazione sostanziale che ne migliorano le prestazioni in maniera globale. A seguito di interventi sia sull’involucro edilizio che sui sistemi impiantistici, l’immobile risulterà riqualificato sotto diversi punti di vista: quello strutturale, quello dei serramenti, quello dell’isolamento termico e acustico, quella della salubrità degli ambienti abitativi e del confort relativo. Con questo sigillo di qualità si valutano dunque:
- l’effettivo miglioramento energetico conseguito a garanzia di una sostanziale diminuzione dei costi energetici;
- il miglioramento della salubrità dell’aria e il conseguente innalzamento del livello di confort abitativo.
L’ottenimento di questo bollino di qualità può davvero far aumentare il valore dell’immobile sul mercato perché non è soltanto una certificazione su carta, ma la garanzia che gli interventi eseguiti per la riqualificazione energetica siano efficaci e in grado di assicurare un effettivo risparmio sui costi in bolletta e un miglioramento del confort abitativo, fattori molto importanti per chi deve acquistare.
Articolo di Angelo Pesce
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Il condomino diversamente abile ha sempre il diritto a parcheggiare sotto casa, anche se non è uno spazio riservato, oppure rischia la sanzione per parcheggio in divieto di sosta?
Il diritto al posto macchina sotto casa del condomino diversamente abile, dipende dal tipo e dal grado di invalidità che gli viene attribuito. Il caso ha interessato la Corte di Cassazione che con Ordinanza del 9 gennaio 2014, n. 258, ha rigettato il ricorso di un invalido al 100%, che invocava a sostegno della propria tesi, l'articolo 188 del Codice Della Strada e il D.P.R. n. 503/1996, articolo 11.
Il quadro normativo. L'articolo 188 del Codice Della Strada, ai commi 1 e 2, prevede che: "per la circolazione e la sosta dei veicoli al servizio delle persone invalide gli enti proprietari della strada sono tenuti ad allestire e mantenere apposite strutture, nonché la segnaletica necessaria, per consentire ed agevolare la mobilità di esse, secondo quanto stabilito nel regolamento. I soggetti legittimati ad usufruire delle strutture di cui al comma 1 sono autorizzati dal sindaco del comune di residenza nei casi e con limiti determinati dal regolamento e con le formalità nel medesimo indicate", mentre al comma 5 "chiunque usa delle strutture di cui al comma 1, pur avendone diritto, ma non osservando le condizioni ed i limiti indicati nell'autorizzazione prescritta dal comma 2 è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 41 a euro 168."
I titolari del contrassegno invalidi, come la Giurisprudenza ha affermato nel 2012, " possono sostare nelle apposite strutture loro riservate e debitamente segnalate" (Cassazione Sezione II civile. 11 gennaio 2012, n. 168.)
Nel caso di cui ci stiamo occupando, invece, l'invalido parcheggiava la propria auto sotto casa e non nell'apposito spazio riservato dal comune, perciò ha collezionato reiterate sanzioni amministrative per divieto di sosta.
L'articolo 11, comma 1, del D.P.R. n. 503/1996 prevede che "alle persone detentrici del contrassegno di cui all'art. 12 viene consentita, dalle autorità competenti, la circolazione e la sosta del veicolo al loro specifico servizio, purché ciò non costituisca grave intralcio al traffico, nel caso di sospensione o limitazione della circolazione per motivi di sicurezza pubblica, di pubblico interesse o per esigenze di carattere militare, ovvero quando siano stati stabiliti obblighi o divieti di carattere permanente o temporaneo, oppure quando sia stata vietata o limitata la sosta."
Il caso analizzato. Il soggetto invalido, nel nostro caso, ha impugnato le sanzioni amministrtive per divieto di sosta comminategli, ricorrendo al Giudice Di Pace, che ha accolto la tesi difensiva, cioè, il " quasi obbligo" di infrangere il Codice Della Strada, "poichè i posti auto riservati ai diversamente abili si trovavano a grande distanza dall'abitazione, pertanto,la vettura, anche se, formalmente, era in divieto di sosta, in sostanza, non arrecava alcun intralcio alla circolazione."
Ma il Tribunale e la Corte di Cassazione, con l'Ordinanza del 9 gennaio 2014, n. 258, hanno sovvertito tale ragionamento.
La decisione. La Cassazione in particolare, ha ritenuto che l'essere in possesso del contrassegno, che ricordiamo – viene rilasciato dal Sindaco del Comune, previa istruttoria tecnica – come bene ha fatto la Corte di Cassazione a precisare nell'Ordinanza, non leggittima il titolare a parcheggiare ovunque, anzi, se nei pressi della sua abitazione, "vi sono degli appositi spazi dedicati alla sosta per i portatori di inabilità, appare evidente che questo stato dei luoghi legittima l'uso del potere discrezionale del Sindaco di limitare l'autorizzazione in deroga ai casi in cui non sia stata predisposta alcuna possibilità di accesso o di sosta facilitati per le persone diversamente abili e soprattutto non legittima il superamento dell'interdizione assoluta alla sosta vigente in loco."
Riguardo al concetto di " intralcio del traffico" la Suprema Cotre spiega: "che il concetto di intralcio non riguarda solo un dato di fatto contingente ma interessa anche come nel concreto l'autorità comunale abbia inteso regolare il transito e la sosta in un determinato luogo: se dunque vi sia - come appare esservi stato nella fattispecie - un divieto permanente alla sosta, questo stava a significare che in quello spazio l'autorità amministrativa riteneva - in rerum natura si vorrebbe dire - esistente una situazione di potenziale intralcio alla circolazione che con il divieto in questione voleva eliminare: non ammissibile appare dunque il superamento di tale interdizione amministrativa - che tende a preservare dalla sosta quei luoghi ove la stessa è vietata dalle principali norme di comportamento - seguendo una soggettiva interpretazione del concetto di ostacolo al pubblico transito."
Fatto sta, che sulla questione c'è ancora una cosa da sapere: il contrassegno di cui il soggetto era titolare e grazie al quale pretendeva di parcheggiare l'auto sotto casa pur non avendone l'autorizzazione, era scaduto, poichè aveva efficacia da novembre 2005 a maggio 2006.
Ergo, il diversamente abile, avrebbe anche perso la titolarità di parcheggiare negli appositi spazi e, anche volendo essere tolleranti e buonisti, il contrassegno logicamemnte, non autorizza il titolare alla sosta selvaggia. Sul punto, la Corte di Cassazione così motiva: " pur dunque se si fosse attribuita l'efficacia - qui negata - al rilascio del c.d. titolo abilitativo, tuttavia l'esercizio delle condotte di guida in deroga alle prescrizioni del codice della strada avrebbe dovuto rispettare i limiti - in questo caso: temporali- contenuti nel provvedimento autorizzativo, da considerarsi coessenziali al diritto che essi garantivano."
Alcune precisazioni in merito al contrassegno.Riguardo al contrassegno, va detto, che il Sindaco lo rilascia, ovviamente previo accertamento medico ed ha validità su tutto il territorio nazionale, come previsto dal combinato disposto dell'articolo 188 del Codice Della Strada e dell'articolo 381 del Regolamento di Esecuzione al Codice Della Strada.
In conclusione, per completezza espositiva, ricordiamo le modifiche normative a proposito del formato del contrassegno.
Con D.P.R., del 30 luglio 2012, n. 151 è stato introdotto il contrassegno unificato disabili europeo, - la cui sigla è C.U.D.E. - pertanto, il soggetto diversamente abile potrà veder riconosciuti i propri diritti anche nel territorio europeo.
Il nuovo formato è rettangolare, di colore azzurro chiaro, con il simbolo internazionale dell'accessibilità bianco della sedia a rotelle su fondo blu.
Articolo di Dott. Emanuele Mascolo
Come verificare se tutti i condomini sono stati regolarmente avvisati dello svolgimento dell’assemblea?
L'assemblea non può deliberare, se non consta che tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati.
Questo il contenuto del sesto comma dell’art. 1136 c.c.
Constare: ossia risultare, essere noto (vocabolario Treccani).
La notissima legge di modifica della disciplina del condominio negli edifici, la riforma, ha sostituito il termine condomino con la locuzione avente diritto.
Due le soluzioni al momento paventate:
- l’amministratore è tenuto a convocare anche, ad esempio, gli inquilini (cfr. art. 10 l. n. 392/78);
- aventi diritto dev’essere inteso come soggetti aventi un diritto reale nell’edificio e quindi essere riferimento solamente a proprietari, usufruttuari e simili.
Al di là di ciò la norma è chiara: o si è a conoscenza del fatto che tutti siano stati regolarmente convocati o non si può deliberare.
Vale la pena ricordare che l’avviso di convocazione, che dev’essere inviato a mezzo fax. p.e.c., raccomandata a.r. o a mani, deve essere comunicato ai condomini almeno cinque giorni prima della data fissata per la prima convocazione.
La giurisprudenza ha chiarito che con il termine comunicazione deve intendersi ricezione dell’avviso medesimo (cfr., tra le varie Trib. Roma 7 luglio 2009 n. 15048).
Inoltre “al termine di giorni cinque, ex art. 66 disp. att. c.c., deve applicarsi la regola generale 'dies a quo non computatur, dies ad quem computatur' (Trib. Roma 7 luglio 2009 n. 15048). Ossia: se riceve l’avviso il giorno 10, l’assemblea può tenersi non prima del 15.
Visti i tempi di consegna delle raccomandate, è sempre consigliabile considerare un termine più lungo di quello appena descritto. Almeno 10-15 giorni.
Il problema che, giustamente, viene spesso sollevato è il seguente: poniamo che l’amministratore abbia agito per tempo, ma che fino al giorno dell’assemblea non abbia avuto indietro tutti gli avvisi di ricevimento delle raccomandate.
Che cosa fare?
L’assemblea può dirsi ritualmente convocate e quindi si può constatare la regolare convocazione di tutti i condomini?
Dipende, è la nostra risposta. Da che cosa?
Vediamo qui di seguito.
In una propria recente sentenza, riguardante l’invio di una lettera di messa in mora, la Cassazione ha avuto modo di affermare che “partendo dal presupposto che l'atto di costituzione in mora del debitore non è soggetto a particolari modalità di trasmissione, né alla normativa sulla notificazione degli atti giudiziari, nel caso in cui detta intimazione sia inoltrata con raccomandata a mezzo del servizio postale, la sua ricezione da parte del destinatario può essere provata, come è stato fatto dal giudice di secondo grado, anche sulla base della presunzione di ricevimento fondata sull'arrivo della raccomandata all'indirizzo del destinatario, essendo quest'ultimo onerato di provare di non averne avuta conoscenza senza sua colpa (Cass. n. 13651 del 2006).
Questo perché la ricevuta di spedizione dall'ufficio postale costituisce, anche in mancanza dell'avviso di ricevimento, prova certa della spedizione, e da essa consegue la presunzione, fondata sulle univoche e concludenti circostanze della spedizione e dell'ordinaria regolarità del servizio postale, di arrivo dell'atto al destinatario e della sua conoscenza ex art. 1335 cod. civ. (Cass. n. 12954 del 2007; Cass. n. 13488 del 2011)”(Cass. 28 novembre 2013, n. 26708).
Il principio vale per qualunque comunicazione, insomma anche per l’avviso di convocazione.
E quindi?
L’amministratore conosce gli indirizzi dei condomini perché questi sono tenuti a comunicarglieli ai sensi dell’art. 1130 n. 6 c.c. (anagrafe condominiale), il plico inviato si dà per conosciuto se recapitato all’indirizzo giusto (nel nostro caso quello indicato dal condomino o in mancanza quello risultante dai registri pubblici), ergo: si può dire che l’assemblea condominiale è regolarmente convocata se l’amministratore ha inviato l’avviso di convocazione con un congruo termine di anticipo per fare ritenere rispettato quello indicato nell’art. 66 disp. att. c.c.
Vale la pena ricordare che ai sensi dell’art. 66, terzo comma, disp. att. c.c. “in caso di omessa, tardiva o incompleta convocazione degli aventi diritto, la deliberazione assembleare è annullabile ai sensi dell'articolo 1137 del codice su istanza dei dissenzienti o assenti perché non ritualmente convocati”.
Articolo di Avv. Alessandro Gallucci
Condominio Web
I proprietari di box o negozi hanno sempre l’obbligo di pagare i lavori di manutenzione del tetto dell’edificio?
(Tribunale di Roma, sentenza n. 18080 del 12.09.2013 )
Tutti i condomini sono obbligati a partecipare alle spese di manutenzione del tetto o del lastrico di copertura dell’edificio, compresi i proprietari di box, negozi, ecc. L’unica deroga giuridicamente possibile si configura in presenza di una previsione espressa contenuta nel regolamento di natura contrattuale oppure nel caso di una particolare conformazione dello stabile, tale da limitare la destinazione d’uso del tetto o del lastrico ad alcuni soltanto dei condomini.
E’ quanto stabilito dal Tribunale di Roma che, con sentenza n. 18080 del settembre 2013, ha confermato l’applicazione dell’art. 1123 c.c. a tutti i proprietari delle unità immobiliari che compongono l’edificio condominiale, indipendentemente dalla dimensione delle stesse o dall’uso a cui sono adibite.
Il Tribunale capitolino, in sede di appello, ha annullato la sentenza del Giudice di Pace, che aveva accolto la domanda proposta da tre condomini, proprietari di altrettante unità immobiliari adibite a box e negozi. I tre avevano chiesto di essere esclusi dalle spese per i lavori di manutenzione del tetto e del lastrico di copertura, deliberate dall’assemblea di condominio.
Incompetenza del Giudice di Pace. In via pregiudiziale, il tribunale ha rilevato l’incompetenza del Giudice di Pace, in quanto la domanda in questione poteva essere esaminata da tale giudice solo qualora fosse stata impugnata anche la delibera con la quale erano state ripartite le spese di manutenzione anche nei confronti dei tre condomini ricorrenti. Cosa che non è stata fatta. In forza della rilevata incompetenza, il Tribunale ha potuto decidere la causa ex novo, ossia come giudice di merito al pari del giudice di primo grado.
Tutti i condomini partecipano alle spese comuni. Venendo al merito della questione, il giudice ha ribadito come le spese di manutenzione del tetto o del lastrico di copertura dell’edificio condominale debbano suddividersi tra tutti i condomini, compresi proprietari di box, negozi, ecc., secondo i millesimi di proprietà. Le spese necessarie alla conservazione delle parti comuni dello stabile condominiale, destinate a proteggerlo dagli agenti atmosferici, sono infatti disciplinate dall’art. 1123 c.c. primo comma. Ad esse non sono applicabili quindi i commi 2 e 3, i quali invece regolano le spese relative a cose comuni suscettibili di essere destinate al servizio dei condomini in misura diversa, o al godimento di alcuni soltanto dei condomini.
Il Tribunale ha quindi dichiarato infondata la domanda formulata dai condomini.
Possibili deroghe. La decisione in commento segue l’orientamento della Cassazione che, in più occasioni, ha dichiarato inammissibile la ripartizione “parziale” delle spese di manutenzione del tetto o lastrico per zone o per singoli proprietari. Tutti i proprietari, sia delle unità immobiliari poste nella porzione sottostante del tetto da riparare che non, sono tenuti a partecipare alla ripartizione delle relative spese, fatti salvi due casi:
- in presenza di una particolare conformazione dell’edificio, tale per cui risulti che, in concreto, il tetto (o lastrico) assolva alla funzione di copertura con riferimento ad una parte soltanto dell’edificio. Circostanza, quest’ultima, che, in ogni caso, deve essere dedotta e provata dalla parte interessata;
- in presenza di una deroga espressa alla regola generale di cui all’art. 1123 c.c., contenuta all’interno di un regolamento di natura contrattuale (cioè accettato da tutti i condomini) o delibera dall’assemblea all’unanimità.
In tali casi, le spese necessarie per la manutenzione del tetto o lastrico di copertura dovranno essere pagate solo dai proprietari delle unità immobiliari comprese in quella parte dell’edificio condominiale “servita” dalle strutture predette.
Articolo di Avv. Giuseppe Donato Nuzzo - Avv. Giuseppe Scordari
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Ricorso per decreto ingiuntivo contro il condomino moroso: quali documenti allegare affinché la richiesta sia accolta?
Per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea, l'amministratore, senza bisogno di autorizzazione di questa, può ottenere un decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo, nonostante opposizione […]
Questo il contenuto del primo comma dell’art. 63 delle disposizioni di attuazione del codice civile.
Il decreto ingiuntivo è un particolare provvedimento giudiziale che consente l’emissione di un ordine di pagamento senza necessità di un preventivo contradditorio con il debitore. In gergo tecnico si parla di provvedimento inaudita altera parte.
In sostanza per arrivare ad ottenere l’emissione di un simile provvedimento è necessario che il credito per il quale si agisce sia:
- certo, vale a dire non in contestazione;
- liquido, ossia determinato o facilmente determinabile nel suo ammontare;
- esigibile, cioè scaduto.
Se, poi, il credito è fondato su particolari documenti è possibile concederne la provvisoria esecuzione.
E’ il caso di crediti fondati su assegni, fatture e cambiali e, nel caso del condominio, di crediti approvati dall’assemblea.
Si badi, non basta che il credito sia approvato dall’assemblea: per ottenere la provvisoria esecutività è anche indispensabile che esso sia stato ripartito tra tutti i condomini in ragione del criterio utilizzabile rispetto al caso specifico.
Solitamente i decreti ingiuntivi si fondano sul rendiconto consuntivo di spesa che l’amministratore è tenuto a presentare all’assemblea ogni anno entro 180 giorni dalla data di chiusura dell’esercizio.
Attenzione: come ha chiarito la Cassazione, è principio basilare di normale gestione del condominio quello che consente “all'amministratore di riscuotere le quote degli oneri in forza di un bilancio preventivo, sino a quando questo non sia sostituito dal consuntivo regolarmente approvato” (Cass. 29 settembre 2008 n. 24299).
In questo contesto, inoltre, è utile ricordare che se si rende necessario chiedere l’emissione di un decreto, l’amministratore potrà farlo personalmente, ossia senza l’assistenza di un legale, in due casi:
- in ogni caso se l’amministratore è anche avvocato (art. 86 c.p.c.);
- per importi fino ad € 1.000,00 se non lo è (art. 82 c.p.c.).
Solamente se l’amministratore è anche avvocato, alla condanna al pagamento della così detta sorte capitale potrà seguire la condanna al pagamento delle competenze legali (cfr. Cass. 9 luglio 2004 n. 12680). Negli altri casi il mandatario della compagine avrà esclusivamente diritto al rimborso delle spese vive effettivamente sostenute.
In questo contesto è utile comprendere quali debbano essere i documenti da allegare al ricorso per decreto ingiuntivo per non correre inutili rischi di respingimento della domanda giudiziale.
Essi sono:
- rendiconto (o preventivo) e piano di ripartizione del medesimo;
- verbale di approvazione dei documenti di cui al punto a) e relativa prova di comunicazione al debitore;
- sollecito di pagamento effettuato dall’amministratore, dall’avvocato e/o da entrambi (teoricamente non è obbligatorio se l’assemblea non ha previsto un termine per il pagamento, in tal caso, infatti, il credito è immediatamente esigibile).
Articolo di Avv. Alessandro Gallucci
Condominio Web
Quando l’amministratore di condominio può agire in giudizio senza rivolgersi ad un avvocato?
Rivolgersi ad un legale ha un costo, spesso, per molti troppo alto.
Far da sé, per risparmiare, il più delle volte vuol dire pagare più avanti un prezzo molto più alto della parcella di un avvocato: chi fa senza sapere fare rischia di compromettere la tutela delle proprie ragioni.
Insomma è facile se s’è inesperti, passare dalla ragione al torto.
Eppure, per professione o per altri motivi, ci sono molti amministratori che sono e sarebbero in grado di agire in giudizio personalmente per tutelare le ragioni del condominio.
Esattamente: quando l’amministratore può difendere gli interessi del condominio senza necessità di rivolgersi ad un avvocato?
La prima ipotesi è questa: l’amministratore è anche avvocato.
In questa ipotesi, ai sensi dell’art. 86 del codice di procedura civile (c.p.c.), a mente del quale:
La parte o la persona che la rappresenta o assiste, quando ha la qualità necessaria per esercitare l'ufficio di difensore con procura presso il giudice adito, può stare in giudizio senza il ministero di altro difensore.
In questo caso l’amministratore-avvocato avrà anche diritto al pagamento/refusione delle spese legali dalla controparte (per il caso di vittoria della lite), purché ne faccia chiara richiesta nei propri scritti difensivi (cfr. Cass. 9 luglio 2004 n. 12680).
C’è poi un’altra ipotesi, ossia quella in cui l’amministratore non è avvocato ma ritiene, comunque, anche grazie al placet dell’assemblea, di poter agire personalmente in giudizio per tutelare gli interessi dei propri rappresentati.
Quando è possibile che ciò avvenga?
La norma di riferimento è l’art. 82 c.p.c. a mente del quale:
“Davanti al giudice di pace le parti possono stare in giudizio personalmente nelle cause il cui valore non eccede € 1.100.
Negli altri casi, le parti non possono stare in giudizio se non col ministero o con l'assistenza di un difensore. Il giudice di pace tuttavia, in considerazione della natura ed entità della causa, con decreto emesso anche su istanza verbale della parte, può autorizzarla a stare in giudizio di persona.
Salvi i casi in cui la legge dispone altrimenti, davanti al tribunale e alla corte d'appello le parti debbono stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente; e davanti alla Corte di cassazione col ministero di un avvocato iscritto nell'apposito albo”.
Per dirla con alcuni esempi: il condominio deve recuperare un credito di € 900,00?
L’amministratore può chiedere un decreto ingiuntivo senza doversi far assistere da un avvocato.
Il condominio intende far causa ad un condomino in merito alla misura dell’uso delle cose comuni?
Trattandosi di causa di valore indeterminabile è necessario farsi assistere da un avvocato, salvo dispensa giudiziale (art. 82, secondo comma, c.p.c.).
Ad ogni buon conto è bene ricordare che l’amministratore, che non sia anche avvocato, se agisce personalmente in giudizio nel caso di condanna della controparte non ha diritto al riconoscimento delle competenze legali ma solamente al rimborso delle spese effettivamente sostenute (marche da bollo, ecc.)
di Avv. Alessandro Gallucci
Condominio Web
Il compenso dell’amministratore per i lavori straordinari può essere indicato a percentuale sul totale lavori?
Un nostro lettore ci chiede di approfondire la tematica del compenso dell’amministratore di condominio, ponendoci uno specifico quesito riguardante la possibilità di chiedere un compenso per i lavori straordinari determinato in misura percentuale sull’ammontare totale dei lavori medesimi.
Qui di seguito il quesito:
“Vorrei porre una domanda in merito a quanto prescritto dal 14° comma dell’articolo 1129 c.c. in relazione alla richiesta analitica del compenso dell’amministratore.
Il suo articolo del 17/12/2013 (Attività fiscale dell’amministratore di condominio e richiesta di compensi extra, quali compiti rientrano nelle sue competenze?) sui compensi extra dell’amministratore mi induce ad avvalorare e rafforzare quella che è già un mia convinzione: l’illegittimità del compenso richiesto in percentuale che molti amministratori continuano a proporre e in alcuni casi in forma veramente truffaldina con percentuali che vanno fino al 4% da parte di alcuni professionisti.
Gradirei da Lei se fosse possibile un suo intervento sull’argomento in uno dei suoi prossimi interventi su Condominioweb. In sostanza una richiesta in percentuale può considerarsi una esposizione analitica di richiesta di un compenso? No secondo il mio punto di vista. Se poi in concomitanza di lavori straordinari di notevole importanza capita che un amministratore venga revocato o comunque decade dall’incarico come si fa a definire il compenso di quello uscente e quanto riconoscere a quello subentrante?”
Nell’articolo citato dal nostro lettore spiegavamo che per l’attività fiscale, sulla base delle nuove norme introdotte dalla riforma del condominio, se l’amministratore vuole domandare e vedersi riconosciuto uno specifico compenso, allora deve inserire questa voce di costo nell’elenco dettagliato del compenso per l’attività che andrà a svolgere, compenso che chiaramente dev’essere approvato dall’assemblea. Ove non lo facesse l’attività fiscale dev’essere considerata ricompresa nella voce di compenso generale e ogni ulteriore richiesta, stante quanto stabilito dall’art. 1129, quattordicesimo comma, c.c. renderebbe nulla la nomina.
Il discorso non cambia molto rispetto ai compensi per i lavori straordinari. L’amministratore ha a disposizione due opportunità:
- domandare un compenso extra per l’attività connessa all’esecuzione dei lavori straordinari determinandolo in misura fissa;
- richiedere una remunerazione aggiuntiva percentuale, specificando che la stessa andrà ad essere parametrata all’importo deliberato per le medesime opere straordinarie.
Non v’è alcun motivo per ritenere tale percentuale (del 2%, del 3%, ecc.), illegittima. La norma che disciplina l’elencazione dettagliata del compenso dell’amministratore ha la chiara funzione di imporre chiarezza e trasparenza nei rapporti con i condomini.
E’ evidente che, allorquando questa voce di costo sia inserita nel preventivo o comunque nel dettaglio del compenso, nessuna obiezione potrà essere opposta all’amministratore. Si deve ricordare, infatti, che al rapporto amministratore condominio si applicano le norme sul mandato, che per l’attività di amministratore non esistono tariffari di riferimento e che dunque la determinazione del compenso è rimessa all’accordo tra le parti (cfr. art. 1709 c.c.).
In sostanza, siccome nessuna norma vieta la determinazione del compenso in questa forma, purché essa sia chiara fin da subito, è da ritenersi legittima la richiesta di un compenso extra – specificato nei modi di cui all’art. 1129, quattordicesimo comma, c.c. – e determinato in misura percentuale rispetto all’ammontare dei lavori straordinari.
Se l’amministratore che ha ottenuto il riconoscimento di questo compenso venisse revocato prima della fine dei lavori, egli avrebbe diritto al compenso per l’attività svolta in misura percentuale ai lavori fino ad allora eseguiti e pagati. Il nuovo amministratore avrebbe diritto al compenso per la parte finale se richiesto e specificato al momento della nomina ed accordatogli dall’assemblea.
Articolo di Avv. Alessandro Gallucci
Condominio Web
Quando possono qualificarsi nulle le delibere condominiali?
Tribunale di Roma, sentenza n. 18702 del 18.09.2013
E’ nulla la delibera dell’assemblea condominiale qualora sia priva degli elementi essenziali ovvero se presenti un oggetto impossibile o illecito o esorbitante dalle attribuzioni dell’assemblea. Le delibere sono altresì nulle qualora provvedano su materie non rientranti nella competenza dell’assemblea condominiale, o incidano sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini.
E’ quanto stabilito dal Tribunale di Roma che, con la sentenza n. 18702 del 18 settembre 2013, ha accolto l’impugnazione presentata dal proprietario di un appartamento in condominio, concesso in locazione, avverso la delibera che poneva a suo carico le spese del giudizio, reso indispensabile per superare la condotta ostruzionistica dell’inquilino.
Il caso.
Il Condominio, in persone dell’amministratore, otteneva un provvedimento cautelare urgente avverso il conduttore di un appartamento sito nel condominio, il quale, con il suo comportamento, impediva i lavori di rifacimento del terrazzo esclusivo con funzioni di lastrico solare. Questi ultimi, successivamente, impugnavano la delibera condominiale, la quale poneva a loro carico delle spese legali sostenute per la condotta ostruzionistica del conduttore, chiedendo che il giudice ne accertasse la nullità insanabile ed assoluta. Nelle more del giudizio, l’assemblea approvava una nuova delibera con contenuto identico a quello della delibera impugnata.
La decisione del Tribunale capitolino.
Il Tribunale romano ha dichiarato nulla la delibera in quanto avente oggetto impossibile e/o illecito. Il Giudice ha rilevato, infatti, come non rientri certamente nella competenza dell’assemblea addebitare ad un condomino spese astrattamente rese necessarie per il comportamento ostruzionistico di un terzo, anche qualora esso sia il conduttore dell’appartamento.
È irrilevante la sopravvenuta conferma, nelle more del giudizio, del contenuto della delibera impugnata da parte dell’assemblea condominiale, in quanto – osserva il Tribunale - l’assemblea non aveva prima e non aveva nemmeno successivamente il potere di deliberare, né di ratificare, contenuti eccedenti le proprie competenze.
Quando la delibera è nulla?.
La sentenza annotata si pone in linea con la giurisprudenza di merito (ex multis: Trib. Padova, 8.2.2013, Trib. Nocera Inferiore, 23.1.2013), nonché con i precedenti arresti della Corte di Cassazione, che si è espressa sull’argomento anche a Sezioni Unite (sentenza n. 4806 del 2005). In tale occasione, in particolare, gli Ermellini chiarirono le cause di nullità delle delibere condominiali, sancendo che debbano qualificarsi nulle:
- le delibere prive degli elementi essenziali;
- le delibere con oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume);
- le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea;
- le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini;
- le delibere comunque invalide in relazione all'oggetto.
In relazione invece agli altri vizi che possono inficiare la validità delle delibere, si deve invocare l’annullabilità (es. regolare costituzione dell'assemblea, delibere adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale).
La distinzione tra nullità e annullabilità assume notevole rilevanza pratica, atteso che le delibere annullabili devono essere impugnate necessariamente entro il termine perentorio di 30 giorni, previsto dall’art. 1138 c.c., mentre i vizi che comportano la nullità della delibera possono essere fatti valere senza limiti di tempo.
Nel caso de quo, il Tribunale ha pienamente attuato quanto affermato dalle Sezioni Unite, non rientrando certo nella competenza dell’assemblea condominiale addebitare ad un condomino spese, astrattamente rese necessarie per la condotta ostruzionistica di un terzo, sia esso il conduttore del medesimo, annullando quindi quanto deliberato in quanto avente un oggetto impossibile e/o illecito.
Articolo di Avv. Giuseppe Donato Nuzzo
Avv. Giuseppe Scordari
Condominio Web
Il creditore del condominio che agisce in via esecutiva può pignorare il conto corrente condominiale?
Per rispondere alla domanda che abbiamo posto nel titolo, prima d’ogni cosa, è bene risolvere un altro problema: che cos’è un condominio?
Al riguardo, nel silenzio della legge, il punto di riferimento è rappresentato dall’elaborazione dottrinario-giurisprudenziale.
Si sente spesso affermare che il condominio è un ente di gestione sprovvisto di personalità giuridica (nonché di autonomia patrimoniale) distinta da quella dei suoi partecipanti.
Secondo le Sezioni Unite, che, sia pur in via incidentale, si sono pronunciate sull’argomento nell’aprile del 2008, il condominio non può essere considerato nemmeno un ente di gestione poiché “non è titolare di un patrimonio autonomo, né di diritti e di obbligazioni: la titolarità dei diritti sulle cose, gli impianti e i servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini; agli stessi condomini sono ascritte le obbligazioni per le cose, gli impianti ed i servizi comuni e la relativa responsabilità; le obbligazioni contratte nel cosiddetto interesse del condominio non si contraggono in favore di un ente, ma nell'interesse dei singoli partecipanti” (Cass. 8 aprile 2008, n. 9148).
Sempre la Cassazione, nel 2009, ha specificato che “è indubbio che il condominio, benché privo di autonoma soggettività giuridica, si configura come centro di imputazione di interessi diverso dal condomino e che e' pienamente configurabile la responsabilità extracontrattuale del condominio anche nei confronti del condomino (a tanto non ostano i rilievi di Cass., sez. un. n. 9148 del 2008, che ha bensì escluso che il condominio sia un ente di gestione, ma ciò in funzione del carattere parziario, anziché solidale, delle obbligazioni dei singoli condomini nei confronti dei terzi con riguardo alle "obbligazioni assunte nel cosiddetto interesse del condominio, in relazione alle spese per la conservazione e per il godimento delle cose comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza") (così Cass. 19 marzo 2009, n. 6665).
La riforma del condominio non è intervenuta sulla materia che, invece, al pari o forse più di altre necessitava di una soluzione: così ad oggi non sono pochi quelli che ritengono, icasticamente, che il condominio sia un ectoplasma giuridico! Tale incertezza riverbera i propri effetti anche sulla materia del pignoramento del conto corrente.
Ciò detto, entriamo nel merito della vicenda: le Sezioni Unite nella stessa sentenza succitata (n. 9148/08) risolsero un contrasto interpretativo in merito alle obbligazioni condominiali, affermando che le stesse dovevano essere considerate parziarie e non solidali: insomma ognuno pagava per sé.
La riforma ha modificato la situazione specificando che: “i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini” (art. 63, secondo comma, disp. att. c.c.).
Esempio
Tizio è creditore del condominio Alfa per la somma di € 1.000,00. Egli, dopo un’azione giudiziaria, è nelle condizioni di agire (grazie ad una sentenza o ad un decreto ingiuntivo) anche per via esecutiva (leggasi espropriazione forzata).
Si supponga che Tizio conosca l’istituto di credito dove è stato acceso il conto corrente del condominio e che abbia intenzione di pignorarlo.
Il primo ostacolo a questa sua intenzione può essere rappresentato dall’opposizione all’esecuzione da parte dell’amministratore del condominio. S’è visto, infatti, che il creditore, prima di tutto deve agire contro i condomini morosi e poi contro quelli in regola. L’amministratore potrebbe opporsi all’esecuzione quale legale rappresentante di tutti i condomini, ivi compresi quelli in regola con i pagamenti, poiché la solidarietà di questi ultimi ha natura eventuale. Poniamo il caso che, però, il giudice dell’esecuzione non sospenda l’esecuzione (o comunque rigetti l’opposizione) perché l’amministratore è comunque il legale rappresentante anche dei morosi e che il creditore prosegua con il pignoramento del conto corrente condominiale (pignoramento presso terzi).
L’opposizione all’atto esecutivo potrebbe risultagli fatale. Ciò perché non è detto che sul conto corrente condominiale vi siano somme dei condomini morosi (che comunque potrebbero essere adempienti in relazione al versamento delle quote ordinarie). Dimostrare che su quel conto corrente non vi sono somme riconducibili ai condomini morosi non è un’operazione molto difficile se si utilizza come prova documentale il registro di contabilità condominiale.
Di conseguenza, poiché, il conto corrente condominiale, allo stato dell’attuale legislazione, altro non è che un conto corrente di tutti i condomini, ed essendo la solidarietà subordinata all’escussione dei morosi, il conto corrente che non contiene somme di questi ultimi non dovrebbe essere considerato pignorabile. Chiaramente se sono tutti i condomini ad essere morosi, il conto corrente condominiale sarà pignorabile, anche se probabilmente risulterà essere “a secco”.
Articolo di Alessandro Gallucci
Condominio Web