Consiglio di Stato – La distanza tra gli edifici si calcola tra tutti i punti del fabbricato

29.11.2013 09:16

Sentenza 22/11/2013 n. 5557

N. 05557/2013REG.PROV.COLL.
N. 02768/2010 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2768 del 2010, proposto da:
Angelo Bignami, rappresentato e difeso dagli avv. Andrea Reggio D'Aci, M. Alessandra Bazzani, con domicilio eletto presso Andrea Reggio D'Aci in Roma, via F. Confaonieri, 5;
contro
Comune di Monza, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dall'avv. Giuseppe Franco Ferrari, con domicilio eletto presso Giuseppe Franco Ferrari in Roma, via di Ripetta, 142; Provincia di Milano;
nei confronti di
Immobiliare Villoresi Srl;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. della LOMBARDIA –Sede di MILANO- SEZIONE II n. 00091/2010, resa tra le parti, concernente permesso di costruire.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Monza;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 ottobre 2013 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli Avvocati Andrea Reggio d'Aci e Fabio Francesco Franco (su delega di Giuseppe Franco Ferrari);
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Con la sentenza in epigrafe appellata, assunta in sede di delibazione della domanda cautelare, il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia – sede di Milano - ha respinto il ricorso di primo grado proposto dall’odierna parte appellante, signor Angelo Bignami, volto ad ottenere l’annullamento del permesso di costruire n. 252 del 14.9.2009, rilasciato dal Direttore del Settore Edilizia del Comune di Monza a favore dell'Immobiliare Villoresi srl per la costruzione di un nuovo edificio residenziale sito nel Comune di Monza, in Via Doberdò n. 1, nonché di ogni atto presupposto, conseguente o comunque connesso, ivi compresi i pareri della Commissione Edilizia espressi nelle sedute del 7.10.2008 e del 17.6.2009, l'art. 3 delle NTA del Piano delle Regole del Comune di Monza, nella parte in cui consentiva di escludere dal calcolo delle distanze i balconi aggettanti di dimensioni inferiori a 1,60 mt, nonché della nota del Comune di Monza del 29.10.2009 che ribadiva la legittimità del permesso di costruire; e per il risarcimento,
in forma specifica o per equivalente, dei pregiudizi patiti.
L’odierna parte appellante aveva esposto di essere proprietaria di un immobile ubicato nel Comune di Monza, in via Doberdò, ed aveva impugnato il permesso di costruire rilasciato alla Società Villoresi, per l’edificazione di un nuovo edificio residenziale, sull’area confinante alla sua, lamentando la violazione dell’art 9 DM 1444/1968, in quanto la distanza tra le pareti degli edifici che si fronteggiano sarebbe stata di mt 7,40, tenendo conto dell’estensione del balcone: il Comune, in base all’art 3 comma 8 delle NTA del Piano delle Regole non aveva infatti calcolato il balcone.
Secondo la originaria parte ricorrente la norma in oggetto sarebbe stata violata anche non prendendo in considerazione il balcone, in quanto la distanza tra le pareti era di mt 9,03, come risultava dagli elaborati progettuali.
L’originario ricorso di primo grado era incentrato su numerose doglianze di violazione di legge ed eccesso di potere (violazione dell’art 9 DM 1444/1968, dell’art 12 del DPR 380/2001 e dell’art 36 L.R. 12/2005, nonché dell’art 3 comma 8 del Piano delle Regole; eccesso di potere per difetto di istruttoria: la distanza posta nel DM 1444/68 è inderogabile e quindi anche gli sporti devono essere inclusi nella misurazione; violazione dell’art 9 DM 1444/1968, dell’art 12 del DPR 380/2001 e dell’art 36 L.R. 12/2005; eccesso di potere per carenza dei presupposti di fatto e di diritto; difetto di istruttoria, non essendo stata rispettata la distanza di 10 mt tra le pareti; violazione dell’art 12 del DPR 380/2001 e dell’art 36 L.R. 12/2005; eccesso di potere per carenza dei presupposti di fatto e di diritto; difetto di istruttoria, essendo inconferente il richiamo contenuto nella nota del 29.9.2009 alla salvezza dei diritti dei terzi).
Il primo giudice all’adunanza camerale fissata per la delibazione dell’istanza di sospensione cautelare dell’esecutività degli impugnati provvedimenti ha definito la causa nel merito: ha partitamente esaminato tutte le censure proposte e le ha respinte in quanto infondate alla stregua della l'interpretazione dell'articolo 3 comma 8 delle NTA del Piano delle Regole (“nella verifica delle distanze non si tiene conto di scale aperte –omissis-, di balconi e di gronde di aggetto inferiori a m 1,60, nonché di altri tipi di aggetti che siano inferiori a m 0,50 e nuovi spessori delle murature perimetrali determinati dalla realizzazione di “cappotti termici”).
Ad avviso del primo giudice la norma considerava irrilevanti i balconi ai fini della misurazione delle distanze dai confini o dagli altri fabbricati solo ove detti balconi avessero aggetti inferiori a metri 1,60, mentre nel caso in cui avessero una profondità maggiore, la distanza doveva essere misurata dal limite esterno del balcone stesso. In altri termini, i metri 1,60 costituivano il limite di tolleranza sotto il quale il balcone diventava irrilevante.
Peraltro norme del medesimo contenuto erano state già esaminate in sede giurisdizionale e ritenute conformi al disposto dell’art 9 del DM 1444/68.
Detta interpretazione era condivisibile sia per il dato letterale dell’art. 9 del DM 1444/68, in cui si parlava di pareti finestrate, sia perché il mancato computo del balcone di una misura modesta, quale mt 1,60, non contrastava con la funzione igienico-sanitaria (evitare intercapedini malsane) della stessa disposizione, dal momento che un balcone di tali dimensioni si configurava come un manufatto di modesta estensione, che costituisce una entità trascurabile rispetto agli interessi tutelati dalla normativa di sicurezza, salubrità e igiene.
Anche il secondo motivo di censura, ad avviso del Tar, doveva essere dichiarato infondato, in quanto la misura di mt 9,03 riportata nella tavola prodotta come doc. 7), era relativa ad una parete non finestrata, emergendo con evidenza che la parete finestrata dell’edificio in costruzione era più interna. Poiché per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 del DM. 2 aprile 1968 n. 1444 dovevano intendersi le pareti munite di "vedute" e in generale di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, non era stata provata dal ricorrente la violazione della distanza tra le pareti finestrate, avendo preso come riferimento una parete non finestrata.
Parimenti il terzo motivo risultava inconferente, in quanto la clausola “fatti salvi i diritti dei terzi” era posta nella lettera del 29.10.2009, a firma del legale del Comune (atto non avente natura provvedimentale): in ogni caso il richiamo a detta formula di stile non concretizzava alcuna violazione di legge.
L’odierna parte appellante, già ricorrente rimasta soccombente nel giudizio di prime cure, ha proposto una articolata critica alla sentenza in epigrafe, chiedendo la riforma dell’appellata decisione.
Ha in proposito rammentato, in primo luogo, quale fosse la situazione dei frontistanti edifici in punto di fatto, ponendo in luce la circostanza che entrambe le pareti dei due edifici frontistanti dovevano considerarsi “finestrate” secondo la normativa vigente.
Ciò implicava che l’art. 3 comma 8 delle Nta risultava illegittimo, per contrasto con il DM n. 1444/1968, nella parte in cui consentiva di escludere dal calcolo delle distanze i balconi con aggetto fino a mt. 1,60 e che comunque, anche laddove si fosse ritenuto che la surrichiamata disposizione di cui all’art. 3 comma 8 delle Nta potesse essere applicabile (senza quindi calcolare i balconi) la distanza tra detti edifici era minore di mt. 10 e pari a mt. 9,03.
Il secondo capo della sentenza era palesemente errato in fatto, oltre che in diritto, in quanto la distanza tra la parete dell’edificio dell’appellante (anche nella parte non finestrata e quindi rientrata) e quella della parete finestrata dell’edificio di parte appellata era minore di mt. 10 e pari a mt. 9,03.
La sentenza era poi palesemente errata laddove affermava che la distanza tra pareti di edifici frontistanti doveva calcolarsi dalle finestre (più arretrate) e non dal fronte complessivo (più avanzato) dell’erigendo immobile.
Ciò in quanto l’arretramento di alcuni tratti di pareti non faceva venire meno l’unicità del fronte.
Inoltre il capo secondo della sentenza risultava palesemente contraddittorio.
Anche il primo capo della gravata decisione (secondo motivo di appello) era errato laddove non aveva colto che l’art. 3 comma 8 delle Nta risultava illegittimo per contrasto con il DM n. 1444/1968, nella parte in cui consentiva di escludere dal calcolo delle distanze i balconi con aggetto fino a mt. 1,60.
Ciò era avvenuto attraverso l’apodittica e palesemente erronea affermazione del Tar secondo la quale i balconi dell’erigendo edificio costituivano una realtà immobiliare di “modeste dimensioni e trascurabile entità”, a palese trasfigurazione della realtà fattuale ed in conflitto con la maggioritaria giurisprudenza in materia.
Parte appellante ha depositato ulteriori scritti e memorie puntualizzando le proprie difese e contestando i rilievi avversari, anche laddove si ipotizza la carenza di giurisdizione del plesso giurisdizionale amministrativo sulla controversia.
L’amministrazione comunale di Monza odierna parte appellata ha depositato una articolata memoria, nell’ambito della quale ha ripercorso i tratti salienti della fase infraprocedimentale ed ha chiesto di respingere l’appello perché infondato.
Esso avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile, in quanto in passato nell’area sorgeva un edificio frontistante posto a distanza di sette metri da quello dell’appellante.
Quest’ultimo aveva prestato acquiescenza alla detta pregressa situazione, per cui non poteva adesso dolersi di un nuovo edificio conforme a legge e che, comunque, era posto a distanza dal proprio immobile superiore a quella dell’edificio demolito.
Nel merito, rammentando che le aperture dell’edifico erigendo erano arretrate di oltre un metro rispetto al fronte dell’edificio medesimo, ha sostenuto la correttezza della gravata decisione, in quanto la porta collocata sul fronte dell’edificio dell’appellante non poteva essere equiparata ad una finestra.
La parete dell’edificio di parte appellante, quindi, non poteva essere considerata “finestrata” e pertanto non si verificava alcuna compromissione di esigenze ambientali e/o di igiene e salubrità degli edifici.
Con ulteriore memoria ex art. 73 cpa del 19.9.2013 ha ribadito e puntualizzato le dette eccezioni ed ha proposto l’eccezione di difetto di giurisdizione sulla quale il Tar non si era pronunciato.
All’adunanza camerale del giorno 27 aprile 2010, fissata per la delibazione dell’istanza di sospensione cautelare dell’esecutività della impugnata sentenza, la Sezione, con ordinanza n. 1914/2010 ha accolto il petitum cautelare alla stregua della considerazione per cui “considerato che, in tema di distanze tra le costruzioni, l'art. 9 n. 2 del d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 prescrive, con disposizione tassativa ed inderogabile, la distanza minima assoluta di 10 metri tra i fabbricati anche nel caso in cui solo una delle pareti antistanti risulti finestrata e non entrambe (Cassazione civile, sez. II, 26 ottobre 2007, n. 22495) e che il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, sì che un regolamento edilizio, che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è contra legem, in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. 10, violando il distacco voluto dalla legge (v. Cass. Civ., II, 27 luglio 2006, n. 17089).
Alla pubblica udienza del 22 ottobre 2013 la causa è stata posta in decisione dal Collegio.

DIRITTO

1.L’appello è fondato e va pertanto accolto, con conseguente riforma della avversata decisione, accoglimento del mezzo di primo grado ed annullamento, per quanto di ragione, degli atti gravati.
1.1. Tutte le eccezioni preliminari proposte dall’Amministrazione vanno disattese, in quanto infondate.
1.1.1. Quanto all’affermato difetto di giurisdizione del plesso giurisdizionale amministrativo, in disparte ogni questione in ordine alla proponibilità della medesima eccezione unicamente con la memoria conclusionale ex art. 73 del cpa (e non anche nella precedente memoria di costituzione: si veda sul punto Cons. Stato Sez. V, Sent., 29-11-2011, n. 6296), la tesi del comune di Monza non coglie certamente nel segno: opera in materia il principio della c.d. “doppia tutela”, ed avendo l’appellante avversato il titolo abilitativo proprio per l’omesso rispetto della disciplina sulle distanze, sussiste la giurisdizione del Giudice amministrativo (ex aliis: Cons. Giust. Amm. Sic., 30-05-2013, n. 514: “è devoluta alla giurisdizione del G.A. la controversia avente ad oggetto l'impugnazione di una concessione edilizia che si assume illegittima per violazione delle norme sulle distanze legali. Trattasi infatti di una controversia che non concerne un rapporto di natura privatistica tra proprietari confinanti in merito ai diritti soggettivi, ma attiene al rapporto pubblicistico con l'ente territoriale ed è intentata a garanzia di una posizione di interesse legittimo. Invero, ai sensi dell'art. 8 della legge n. 1034 del 1971, il giudice amministrativo può accertare, in via incidentale, la sussistenza o meno di un diritto soggettivo, ai limitati fini della soluzione della vertenza ad esso demandata in via principale, ancorché sulla predetta questione di diritto penda un giudizio davanti al giudice ordinario, ma senza sconfinare nella risoluzione delle controversie.”. Ma ma si veda anche : Cons. Stato Sez. IV Sent., 16-11-2007, n. 5837; T.A.R. Campania Napoli Sez. II, 08-06-2012, n. 2747: “la giurisdizione del Giudice amministrativo è al riguardo configurabile allorché la controversia sia insorta tra il privato e la pubblica amministrazione, per avere il primo impugnato detta concessione al fine di ottenerne l' annullamento nei confronti della seconda.”).
1.1.2. Quanto alla supposta carenza di interesse di parte appellante, in disparte la evidente carenza di prova ed allegazione della medesima, si rimarca che non può ravvisarsi alcuna acquiescenza in capo al privato riposante nell’avere tollerato una precedente situazione illegittima, laddove questi si trovi a doversi confrontare con una iniziativa dell’Amministrazione asseritamente ripetitiva della illegittimità precedente (si veda Consiglio di Stato Sez. V, 26-10-1998, n. 1540: “non è configurabile una rinuncia preventiva alla tutela giurisdizionale dell'interesse legittimo, effettuata prima della lesione di quest'ultimo, ossia nel momento in cui, non essendo ancora attuale la lesione stessa, lo strumento di tutela non è ancora azionabile, né si può ipotizzare alcuna acquiescenza nei riguardi di un provvedimento amministrativo ancora non emanato - nella specie, non ha alcun valore la dichiarazione resa dal controinteressato, di rinuncia al vincolo circa il rispetto delle distanze tra fabbricati, sulla cui scorta è stata emanata una concessione edilizia in deroga alle norme sulle distanze legali).
E’ appena il caso di rilevare, conclusivamente, che una pregressa condizione illegittima tollerata in passato non implica affatto la rinuncia abdicativa a fare valere in seguito il proprio diritto: nessuna ipotesi di originaria inammissibilità del mezzo di primo grado è, pertanto, favorevolmente delibabile.
2. Ciò premesso, passando ad esaminare il merito, va immediatamente evidenziata la inconferenza ed inconducenza di tutte le argomentazioni difensive prospettate dal Comune di Monza ed incentrate sulla circostanza di fatto secondo la quale l’edificio di parte appellante non sarebbe munito di finestre, ma soltanto di un porta, a queste ultime inassimilabile in punto di disciplina in materia di distanze.
Tale circostanza, come è appena il caso di rilevare, assume portata troncante, in quanto, se anche fosse stato corretto il ragionamento svolto dall’amministrazione comunale e sotteso al rilascio del titolo abilitativo gravato (avallato in sede giudiziale dal Tar), con riferimento alla natura dei balconi insistenti nella erigenda costruzione, ugualmente si sarebbe dovuta rispettare la distanza di legge.
Il Collegio infatti condivide la consolidata giurisprudenza di legittimità civile ed amministrativa, secondo la quale, perché si applichi la disciplina inderogabile di legge in materia di distanze, non è necessario che entrambe le pareti frontistanti siano finestrate, ma è sufficiente che lo sia una soltanto di esse.
Si è detto in particolare in passato, che (Cass. civ. Sez. II, 20-06-2011, n. 13547):
“la norma dell'art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, in materia di distanze fra fabbricati - che, siccome emanata in attuazione dell'art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765, non può essere derogata dalle disposizioni regolamentari locali - va interpretata nel senso che la distanza minima di dieci metri è richiesta anche nel caso che una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella dell'edificio preesistente, essendo sufficiente, per l'applicazione di tale distanza, che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta; ne consegue, pertanto, che il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestre.” (vedasi anche Cass. civ. Sez. II, 28-09-2007, n. 20574).
Questo Consiglio di Stato ha condiviso – o forse è meglio dire anticipato - tale approdo (Cons. Stato Sez. IV, 05-12-2005, n. 6909), affermando che:
“la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti si riferisce a tutte le pareti finestrate, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra.
Si rammenta in particolare, a tale proposito che la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9, D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche a estendere e ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso abitativo (Cons. di Stato, sez. IV, 5 dicembre 2005, n. 6909).
Si evidenzia soprattutto che, per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 D.M. 2 aprile 1968, n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (Corte d'Appello, Catania, 22 novembre 2003; T.A.R. Toscana, Firenze, sez. III, 4 dicembre 2001, n. 1734; T.A.R. Piemonte, Torino, 10 ottobre 2008 n. 2565; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 7 giugno 2011, n. 1419).
Ne consegue che, posto che la parete dell’edificio di parte appellante era munito di una porta finestra, e che per tal motivo rientrava nel concetto di “parete finestrata” si sarebbe dovuta rispettare la distanza minima. Il detto argomento difensivo svolto dall’amministrazione comunale, palesemente inaccoglibile, va pertanto respinto, il che assume portata decisiva, imponendo l’accoglimento del ricorso di primo grado (si veda: T.A.R. Abruzzo L'Aquila Sez. I, 20-11-2012, n. 788: “per "pareti finestrate", ai sensi dell`art. 9 d.m. 2 aprile 1968, n. 1444 devono intendersi, non solo le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l`esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo -di veduta o di luce, bastando altresì che sia finestrata anche la sola parete che subisce l'illegittimo avvicinamento.”, ma anche T.A.R. Puglia Lecce Sez. III, Sent., 28-09-2012, n. 1624 ).
3. Pur potendosi – alla luce di quanto si è dianzi precisato - assorbire le restanti censure, a cagione della già avvenuta dimostrazione della illegittimità del titolo abilitativo edilizio rilasciato a parte contro interessata, in quanto non rispettoso del principio della prevenzione in punto di rispetto delle distanze, ritiene il Collegio di affrontare la tematica che ha costituito l’elemento centrale della decisione di primo grado (motivo n. 1 del mezzo introduttivo del giudizio di prime cure).
Si rammenta che la disposizione prima richiamata di cui all’art. 9 del d.M. 2 aprile 1968 n. 1444 così prevede: “Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale;
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12.
Le distanze minime tra fabbricati - tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti) - debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
ml. 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml. 7 e ml. 15;
ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15.
Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche.”.
V’ è concordia in dottrina ed in giurisprudenza civile ed amministrativa in ordine al principio per cui, “nella materia delle distanze nelle costruzioni, il principio secondo cui la norma dell'art. 9, numero 2, del d.m. 2 aprile 1968, che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, non è immediatamente operante nei rapporti fra i privati, va interpretato nel senso che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la citata norma comporta l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del menzionato articolo 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico, in sostituzione della norma illegittima che è stata disapplicata.”.
Con più specifica aderenza al caso devoluto alla cognizione del Collegio, è stato in passato affermato che (Cass. civ. Sez. Unite, 07-07-2011, n. 14953) “in tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, secondo comma, del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica.”.
3.1. La gravata decisione ha applicato il principio – di recente predicato dalla giurisprudenza amministrativa – secondo il quale (T.A.R. Toscana Firenze Sez. III, 09-06-2011, n. 993) “ha natura di norma di ordine pubblico l'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 che prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Si precisa che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò.”. Nella richiamata decisione è stato, infatti, affermato che “la giurisprudenza ha, infatti, ormai chiarito la natura di norma di ordine pubblico dell'art. 9 del D.M. 1444/68, che prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, precisando tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò (cfr., Cons. Stato, sez. IV, 7 luglio 2008 n. 3381; TAR Lazio, 31 marzo 2010 n. 5319; TAR Liguria, Genova, sez. I, 10 luglio 2009 n. 1736).”.
La decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, 7 luglio 2008 n. 3381, per il vero, contiene questa significativa affermazione: “secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, i balconi aggettanti sono quelli che sporgono dalla facciata dall’edificio, costituendo solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono, non svolgono alcuna funzione di sostegno, né di necessaria copertura, come viceversa è riscontrabile per le terrazze a livello incassate nel corpo dell’edificio (Cass. civ. sez. II, 17 luglio 2007, n. 15913; 7 settembre 1996, n. 8159), con la conseguenza che mentre i primi, quelli aggettanti, non determinano volume dell’edificio, nel secondo caso essi costituiscono corpo dell’edificio, e contribuiscono quindi alla determinazione del volume.”.
Senonché, anche sotto tale profilo, la censura dell’appellante appare persuasiva sotto un ulteriore aspetto: la norma del regolamento comunale (articolo 3 comma 8 delle NTA del Piano delle Regole: “nella verifica delle distanze non si tiene conto di scale aperte –omissis-, di balconi e di gronde di aggetto inferiori a m 1,60, nonché di altri tipi di aggetti che siano inferiori a m 0,50 e nuovi spessori delle murature perimetrali determinati dalla realizzazione di “cappotti termici”) costituisce norma eccezionale e di favore, in quanto integra e “deroga” (con il favore della giurisprudenza, come si è avuto modo di dimostrare, seppur entro determinati limiti) alla norma di ordine pubblico di cui all’art. 9 del dM più volte richiamato.
Non v’è dubbio che tali “deroghe/integrazioni” debbano essere interpretate in senso restrittivo: ai fini del calcolo della distanza, quindi, il balcone aggettante comunque non può che essere calcolato partendo dalle finestre, arretrate rispetto al fronte dell’edificio: come rimasto incontestato, in tale ipotesi il balcone avrebbe un aggetto di mt 2,40, e quindi non rientrerebbe nel precetto “di favore” di cui alla norma regolamentare comunale.
3.2. Anche sotto tale profilo, quindi, l’appello va accolto, con assorbimento delle ulteriori censure proposte, mentre non v’è luogo a pronunciarsi sul petitum risarcitorio prospettato in primo grado in quanto l’appellante non lo ha riproposto (e, peraltro, la difficoltà interpretativa della normativa regolatrice, e le incertezze giurisprudenziali sul punto, renderebbero implausibile l’accoglimento del medesimo: ex multis: “un errore scusabile è configurabile, ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.” -Consiglio Stato , sez. VI, 23 giugno 2006, n. 3981-).
4. L’appello va pertanto accolto, con conseguente riforma della avversata decisione, accoglimento del mezzo di primo grado,ed annullamento, per quanto di ragione, degli atti gravati, mentre tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
5. La particolarità e complessità delle questioni esaminate legittima l’integrale compensazione delle spese processuali del doppio grado.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in riforma dell’appellata decisione, accoglie il mezzo di primo grado ed annulla, per quanto di ragione, gli atti gravati.
Spese processuali compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 ottobre 2013 con l'intervento dei magistrati:
Paolo Numerico, Presidente
Sergio De Felice, Consigliere
Raffaele Greco, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere, Estensore
Francesca Quadri, Consigliere

L'ESTENSORE IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 22/11/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)